di SILVANA WEILLER ROMANIN JACUR

Ogni luogo, ogni tempo ha un momento in cui si esaltano e si coagulano le forze creative in un risveglio di speranza; cosi al l’orizzonte di Padova, negli anni 50, si affacciano alcuni giovani artisti che, raccogliendo il filo di un’eredità di primo novecento non ancora decantato, inseriscono il loro discorso d’innovazione formale senza proporre voli avanguardistici, ma piuttosto nel l’intento di dar voce ad istanze umanissime, emerse ed evidenziate dal travaglio della guerra. Piero Perin, scultore, Enrico Schiavinato pittore, Ubaldo Bosello incisore, iniziano di qui un processo autonomo di maturazione, che per il fatto di percorrere traiettorie reciprocamente diverse, risulta tuttavia coerente nella sostanza del lirismo dolente, sicché a dispetto della scelta formale, sin dal l’inizio incline a moduli espressionistici per Schiavinato e per Bosello, anelante a perfezioni neoclassiche per Perin, essi giungono oggi a un ravvicinamento di ordine metafisico sul piano nostalgico del sogno, là dove la parola è pura suggestione. Piero Perin scolpisce o meglio modella la creta morbida inseguendo nel l’immagine un archetipo di bellezza formale raffinata e rigorosa che certamente proviene dal ricupero della musicalità canoviana, ma ben presto di li si allontana per procedere verso sintesi, cui la ricerca di Brancusi non sembra estranea nel l’individuazione sempre più precisa dell’elemento strutturante assoluto, sotteso alla forma accarezzata.

I tempi si allungano tra un snodo e l’altro degli equilibri, nel ritmo di curvi abbandoni purissimi: qualche riferimento sfiora le modalità di Emilio Greco, poi si configura una ricerca nuova che in progressione lentissima, silenziosamente conduce le forme stesse a tensioni drammatiche estreme, contrapponendo, all’interno dell’andamento curvilineo, ripiegamenti concavi e convessi.

Il modellato adombra la connotazione fisiologica per ondulazioni sfumate della massa dove il segno breve incide la costante presenza interiore del tormento: affiora l’angoscia segreta che anima di vibrazioni continue e impercettibili le superfici tese, dove la luce si posa indisturbata, vellutata, dove l’ombra rincorre piani mutevoli e profondi, chiusi nel rigore di curve avvolgenti, gelose, ininterrotte. Sono forme che da ultimo trascendono l’immagine di un’utopistica perfezione estetica, per accedere a un discorso inconsueto, per cui ogni movenza nel l’opera d’arte si trasforma in segnacolo di mitici flussi inconsci. Se la forma scolpita a questo punto, rappresenta un momento conchiuso, molto più trasparente risulta il processo evocativo nei disegni lievissimi, che vanno condensando la forma per sovrapposizione di retini successivi, fino al l’evidenza piena e ricuperano alla vita un’immagine perduta nella profondità evanescente dell’ombra.