Un artista solitario

di CARLO MUNARI

Un artista che ha badato esclusivamente a coltivare le proprie idealità estetiche senza mai cedere a esterne pressioni, senza mai fare concessioni a proposte che, seppure di attualità, riconosceva estranee alla sua indole, estranee soprattutto alla sua Weltanschauung.

Così, in un arco di quattro decenni, il cammino di Piero Perin si è snodato sul filo di una rigorosa coerenza, tanto che ciascuna opera trova con l’opera successiva un preciso, nitidissimo nesso linguistico. E va tosto annotato che siffatta coerenza mai si è mummificata nell’autocopismo giacché volta per volta quell’opera si è rinnovata – talora in misura impercettibile, talaltra per uno scatto più risentito – in ragione degli apporti di una fantasia creativa che di continuo l’ha vivificata assegnandole un carattere di necessità.

So bene che un riscontro di questo tipo può suonare desueto in un tempo in cui frequenti sono i mutamenti di rotta, certo indotti in vari casi dal corso di una ricerca o da una ipotesi sperimentatoria, più spesso dalle effimere sollecitazioni di un trasformismo disinvolto quanto cinico. Ma so altrettanto bene che a Piero Perin il riscontro puntualmente si addice, avendo per larga parte assistito alla nascita e alla crescita della sua opera, avendo avuto anzi con l’artista, lungo quei quattro decenni, una frequentazione assidua nel segno di un’amicizia capace di sfidare il tempo e le lontananze. Il che non è divagazione privata, ma chiarimento in ordine all’attendibilità di una testimonianza che intende incentrarsi sulla qualità degli esiti conquistata attraverso una vicenda esemplare e che non può dunque venire fraintesa come acconsentimento suggerito da una stagione che solo ad un osservatore superficiale accadrebbe di reputare propizia all’opera di Perin: in altri termini, il post-moderno, fenomeno del gusto prima che categoria di linguaggio, non trova con quest’opera relazione alcuna.

Da differenti premesse essa insorge, su differenti prospettive si sviluppa e differenti obiettivi si prefigge.
Una rivisitazione critica s’impone semmai per attestare che la legittimità del linguaggio di Perin sempre è stata determinata dai “valori” e in plastica consistenza risaltava anche nei periodi in cui esso pareva porsi controcorrente rispetto agli orientamenti in auge, consacrati da una ufficialità che, ad uno sguardo retrospettivo, si qualifica inevitabilmente unilaterale, quando non faziosa e comunque incapace di riconoscere gli aspetti pluralistici propri dell’arte italiana.

Non sono mai stato incline a ritenere le Accademie secondo l’accezione romantica fucine di artisti, per contro ho diffidato di taluni metodi di insegnamento attardati in un clima da ancien regime. Credo però che giovevole sia stato a Piero Perin l’alunnato veneziato presso Arturo Martini, quindi presso Alberto Viani: due veri artisti, due spiriti liberali.

Quando Perin si iscriveva all’Accademia, Arturo Martini aveva appena superato una crisi profonda e tormentosa. Dato alle stampe nell’immediato dopoguerra, “Scultura lingua morta” è un atto di accusa contro la statuaria e, in pari tempo, un atto di fede nel destino della scultura. “Fa che io non sia un confronto ma una unità – scriveva fra l’altro Martini facendo parlare la scultura- fa che io non sia una pietra miliare dell’uomo ma della mia natura” -e questo invito a seppellire gli schemi decrepiti, a cancellare le ipoteche del narrato o del celebratorio dovette incidere non poco sul giovane Perin così come dovette incidere la straordinaria capacità di Martini nel calare in epoche remote suggendo linfe da una scultura che si proponeva in tutta vitalità.
Ne presa minore dovette avere sul Perin l’operare di Alberto Viani che, muovendo dalla sottile inquisizione condotta nei territori del Neoclassico, massimamente sul Canova, si era insediato nelle posizioni più avanzate della plastica internazionale.

A far breve, attraverso l’esempio dei docenti, Perin comprendeva che un rapporto con il passato privilegiato nel riconoscimento di elettive affinità non soltanto era lecito ma poteva anche farsi matrice di un linguaggio autenticamente moderno.
Da quell’esempio di certo egli trasse conforto quando, conclusi i corsi all’Accademia agli inizi degli anni Cinquanta, in più espliciti contorni cominciò a manifestare le proprie propensioni nei confronti di specifici assetti della cultura plastica, a maturare appunto le idealità estetiche cui si accennava all’inizio.

Sin d’allora, insomma, egli intese la legittimità della presenza artistica come punto terminale della continuità dinamica di una tradizione che, per lui, coincideva con la linea mediterranea delle culture compiute, pervenute alla fase della maturità, dall’Ellenismo al Manierismo, nelle quali la severità strutturale è intimamente connessa all’eleganza formale. é persino superfluo aggiungere, a questo punto, che la “nostalgia dell’antico” che occupava – e tuttora occupa – l’artista nulla ha in comune con il revival archeologico che, in tempi diversi, ha contrassegnato non poche operazioni stilistiche, degradandole quasi sempre sul piano di un filologismo frigido e inerte.

Conta rilevare piuttosto che il peculiare atteggiamento assunto da Perin non venne minimamente scalfito, in quegli anni formativi, dalle offerte di una cultura, allora definita europea, che tardivamente irrompeva in Italia. Non fu scalfito cioè dal picassismo, dal postcubismo e dall’espressionismo che, accolti dai più acriticamente, concorsero allora alla elaborazione di una sorta di tedioso esperanto.

Purtroppo l’autonomia ha un prezzo – e il prezzo pagato da Perin fu l’isolamento.
Ai solerti quanto pedissequi trombettieri delle presunte e improbabili avanguardie, poteva apparire un “anacronista” ante litteram, sia pure al di fuori d’ogni deliberazione provocatoria, quand’era invece un artista che aveva il coraggio di porsi controcorrente.

Questa forma e persino ostinata fedeltà alle proprie convinzioni doveva rafforzarsi attraverso la lunga perlustrazione dei miti espressi dalle civiltà solari verso le quali inclinava naturaliter.
Che il mito – recepito come visualizzazione di un contenuto archetipico della psiche profonda – avrebbe avuto alto potere stimolatorio nella creatività matura dell’artista.

Fedeltà ai propri credi è esatto risvolto della coscienza-limite, ch’è quanto dire definizione dell’ambito in cui un artista può realizzare se stesso. Essa tuttavia non impone preclusioni alla immaginazione creativa, più semplicemente la cadenza su un ordine inferiore all’artista esclusivo.

In effetti, dall’immaginazione di Perin sono scaturiti progetti che mai si sarebbero realizzati in quanto estranei a quell’ordine. Uno soltanto citerò. Mentre i più si trastullavano con i formular! di recupero, egli adombrava la possibilità di realizzare organismi plastici dinamici e luminosi mediante materiali extra-tradizionali. Eravamo ragazzi e quelle discussioni accompagnavano le nostre passeggiate nel buio dei portici padovani: ne Piero ne il sottoscritto potevano conoscere Frank Malina, ancora un decennio ed oltre sarebbe dovuto trascorrere prima di vederne esibite le opere in una galleria milanese.

L’intero corpus sculturale di Perin è governato da un principio di armonia. Attivo sin nelle prime prove, tale principio si rivela obbligante già nel corso degli anni Cinquanta nel momento in cui il tema del nudo femminile diviene, di quel corpus, una costante, un ineludibile leit-motiv.

Pur mantenendo fissa la tipologia e, sovente, l’impostazione della positura – uno scatto ascensionale che nello spazio si inscrive similmente a curva dotata di rattenuta energia – il nudo femminile viene prospettato in una pluralità di varianti.
Di consueto si invera mediante un sistema di volumi allisciati per una modellazione controllata all’estremo onde favorire sommovimenti pressoché impercettibili al flusso luminoso. In queste opere – che l’artista riprenderà in più occasioni nel corso della sua vicenda sino ad elaborare veri e propri cicli – il tratto identificativo è costituito dal continuum della massa plastica.

In altre opere – che ugualmente si susseguono con ciclica periodicità – la massa s’infrange e cede a una definizione filiforme caratterizzata in senso verticale che, per la sua netta profilatura, ritaglia lo spazio in icastica cadenza.
Nell’un caso e nell’altro, il sensualismo implicito nel tema si dissolve in favore di una decantazione sospinta ai gradi più alti: la figura pare talora sospendersi nella fissità di un estatico rapimento, talaltra tendersi per una spinta verso una comunione panica od ancora centrarsi in un incantamento forse venato di lieve inquietudine.

Lungi dal circoscriversi nelle angustie di un accadimeno esistenziale, la figura funge da veicolo a un evento. E nella temperie di questo evento anche si collocano le grandi teste femminili dallo sguardo colmo di stupefazione, radicate in una sfera di solitudine metafisica.

Si direbbe che questa tipologia femminile cristallizzi un momento della metamorfosi che dall’umano reca al mitico. La figura è risolutamente sottratta al dominio della terrestrità, nonostante ne conservi il remoto sembiante, e visualizzata nei suoi transiti verso quella trasfigurazione improntata ad olimpica grazia che costituisce la sostanza di una creatura autre: la personificazione di un ideale femminino che popola una riconquistata Età dell’Oro.

Nel contesto della creatività di Perin vanno altresì segnalate sculture promosse da differente tematica ma linguisticamente aderenti all’assunto formale delle figure femminili. Sono, per lo più, busti virili, sottoposti essi pure a un processo di decantazione in grado di evidenziare una qualità dell’anima piuttosto che un caduco affioramento psicologico. Valga, fra tutti, la menzione di un “San Francesco” dal quale i sensi di una pietas sofferta fino alla macerazione traspaiono in forza di una modellazione che il volto affila nella misura più tesa senza peraltro ridurlo a maschera allegorica, senza cioè nulla concedere all’iconografia tradizionale, quasi sempre incline al fraseggiare edificante.

Si tratta di una ulteriore attestazione di quanto l’agire dell’artista rifiuti il discorsivo e il retorico.
Quel discorsivo, quel retorico che nemmeno affiorano nei monumenti ai Caduti. Per essi Perin predilige il bassorilievo, la grande lastra nella quale situare figure emergenti a guisa di apparizioni da uno spazio fluido, indifferenziato, disponibile ad una molteplicità di interne articolazioni. Tali figure non saranno convocate a comporre episodi di un eroismo che sottende violenza ma la scena della “Deposizione” dove si consuma il grande dramma dell’amore e della morte, dove la Mater Dolorosa, accogliendo nel grembo il Figlio sacrificato, incarna l’appello supremo alla fraternità tra gli uomini.

Il monumento apposto dinanzi al Palazzo del Comune di Cervarese Santa Croce è a tale proposito, notevolmente significante e si appaia, per spessore qualitativo, a quelli eseguiti a Campagnola di Brugine e, in anni molto più lontani, a Traversala, sulle colline del Canavese. Noterò, in conclusione, che con Piero Perin ci si trova dinanzi a un artista il cui Kunstwollen è costantemente rivolto a un obiettivo di stabilità e di “durata”: le squisite eleganze del modellato non tradiscono edonistici compiacimenti ma si integrano bensì, in ogni occasione, nella struttura unitaria dell’opera; e il calcolo che amministra il perfetto ritmarsi di volumi e profili non in una gelida equazione si esaurisce ma risulta del tutto assorbito nella concezione poetica che informa l’atto creativo; e rumano messaggio che dall’opera discende non ad esterne forzature è demandato ma alle modalità esclusive al nucleo plastico.

Come definire dunque Piero Perin? Non creso di sbagliare se lo chiamo un artista moderno carico di qualità antiche.